Etica del desiderio
In tutto c’è una componente di stress. Il lavoro è l’ambiente stressante per eccellenza, ma se siamo irritabili a casa è perché siamo stressati, se abbiamo le occhiaie è che siamo stressati, e così via.
Ci può entrare di tutto: il senso di fatica, la difficoltà di concentrazione, il senso di debolezza, gli indolenzimenti. Sono termini di nosologia popolare e nell’uso corrente non indicano niente di preciso. Il DSM ha importato questo termine, prelevato dal contesto in cui in medicina si definisce in rapporto a situazioni biologiche di omeostasi e di equilibrio, per farlo entrare in due disturbi del suo interminabile elenco: il disturbo acuto da stress (ASD) e il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Quest’ultimo ha una storia antica che risale ai pionier della psicoanalisi. I primi a interessarsi alle conseguenze dei traumi di guerra furono infatti gli psicoanalisti della cerchia freudiana che parteciparono alla prima guerra mondiale, avendo occasione di vedere gli effetti sui soldati dell’esposizione alle situazioni di combattimento, di pericolo di vita, di esplosioni di ordigni. Il disturbo post-traumatico da stress riguarda, nel modo più generale, eventi critici estremi, come il coinvolgimento in catastrofi naturali, in incidenti di grande portata, attentati, eventi bellici. Si sa che la formulazione attuale del disturbo con la denominazione Post-Traumatic Stress Disorder è stata inserita nel DSM III su pressione della lobby dei veterani della guerra del Vietnam, perché i reduci potessero avere i rimborsi delle cure psichiatriche. Le descrizioni abituali delle manifestazioni di questo disturbo ritrovano i fenomeni che già avevano osservato gli psicoanalisti durante la prima guerra mondiale: ripresentarsi del vissuto dell’evento, incubi che tornano incessantemente al momento del trauma riproponendolo in modo vivido e realistico, irritabilità, ottundimento, tensione continua, e via descrivendo. Il soggetto ha vissuto una situazione eccezionale, che ha interrotto l’abituale scorrere della vita, portandolo a una mobilitazione di tutte le energie e convogliandole sul fattore traumatico, come in una sovrattenzione concentrata. Potrebbe sembrare normale, in un caso simile, un bisogno di ritrovare l’abituale equilibrio e invece succede esattamente il contrario. Il soggetto non fa che tornare al momento traumatico, non riesce a staccarsene, non riesce a rientrare nel corso normale della sua vita precedente. In effetti quindi, contrariamente a quel che sembrerebbe ragionevole, il soggetto anziché fuggire dal momento traumatico vi torna continuamente. Medici, psicologi, operatori sociali e sanitari coinvolti nei primi soccorsi hanno constatato tutti i fenomeni abitualmente descritti in questi casi nei sopravvissuti a catastrofi e a situazioni eccezionalmente drammatiche: incubi che tornavano al momento traumatico, flashback che lo facevano loro rivivere. Hanno però notato, ascoltando attentamente i racconti delle persone coinvolte nella situazione traumatica, che in realtà quel che veniva rivissuto non era l’evento in quanto tale, ma piuttosto quel che in quel momento non era accaduto. Si trattasse di una persona ferita che non avevano potuto aiutare, o della possibilità di prendere un treno diverso che non li avrebbe portati nel luogo del disastro, i ricordi tornavano a quel che non era accaduto e che avrebbe modificato la scena traumatica in cui si erano trovati. Questo fa meglio capire anche il tipico senso di colpa dei sopravvissuti, che non si riferisce all’attualità del momento vissuto, ma al possibile. Il soggetto non ha potuto salvare i compagni, ma non era logicamente impossibile: forse non ha fatto la scelta giusta, forse ha provato una paura paralizzante, forse tutto si è cancellato dietro la mera preoccupazione di sopravvivere. Non sappiamo, sappiamo solo che il ritorno al momento traumatico non è mosso dalla spinta a ritrovare lo sconvolgimento del trauma, ma dalla forza d’attrazione di quel che è rimasto sospeso, da un possibile irrealizzato da realizzare, dalla ricerca di un supplemento di quel che è accaduto che ne modifichi la configurazione. Non è dunque la ricerca dello stato precedente al trauma il motore della ripetizione, ma il tentativo di dare un diverso sviluppo a quel che è accaduto, riprendendo il filo di quel che è rimasto sospeso. La ripetizione ritorna dunque non al trauma, ma a un suo supplemento irrealizzato che lo risolva diversamente, al tentativo di produrre un "plusgodere" come Lacan lo definisce nel Seminario XVII. Il rovescio della psicoanalisi.
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Novembre 2024
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