Etica del desiderio
Lo “stato di paura” di chi ha vissuto l’esperienza del panico sembra una sorta di protezione dall’angoscia del suo ritorno preferendo il restringimento degli orizzonti della libertà all’affacciarsi del mondo esterno del possibile, con il suo carico di imprevedibilità. Paura e ansia (angoscia) non sono dinamicamente autoescludentisi. Ci può pertanto essere uno stato di paura-con-oggetto che subentra all’angoscia, ma sul quale può altrettanto innestarsi di nuovo l’angoscia. Pertanto si può passare dalla paura che blocca e invita alla fuga (evitamento) come nell’agorafobia o nella fobia sociale, all’angoscia inquieta, tormentosa e paralizzante. L’individuo che patisce il panico non accetta la possibilità di soffrire, il male è qualcosa che “capita” devastando, che arriva da un altrove e modifica l’Io, non c’è identificazione ma neanche la possibilità di prenderne le distanze. Così questi pazienti, nel tentativo di liberarsi dalla morsa dell’attesa che impietosamente si fa ansia, quasi ossessivamente, rendono presente il futuro nell’anticipo; vi è, in buona sostanza, il tentativo di rendere noto l’ignoto, di oggettivare l’eventualità non conosciuta. È, in fondo, il tentativo inconsapevole di trasformare l’ansia indeterminata in paura determinata. Quest’ultima, a differenza dell’ansia, è dotata di confini, vede l’oggetto che inquieta e permette la fuga che nel disturbo di panico, quasi sempre, si concretizza nell’evitamento di situazioni o persone. Per cui spesso si vive, accanto al tempo dell’anticipo, il tempo del rinvio, che evita il mettersi all’opera fino a quando non lo pretenda l’incombenza della necessità, di quello stato di costrizione che è antitetico alla libertà. Si verifica cioè nel panico un momento in cui il corpo si percepisce come vita al di fuori di qualsiasi rappresentazione, e quindi al di fuori di qualsiasi rappresentazione in grado di contenerla. Assistiamo al crollo di ogni difesa, l’impossibilità di tirarsi fuori da una vita a cui non è possibile pensare, da cui non è possibile prendere una distanza rappresentativa perché investe e travolge. Questo può darci il senso dell’”impotenza” freudiana ( Hilflosigkeit ): sentirsi invasi dalla pressione di una vita senza limiti e senza controllo. Nella contemporaneità il rapporto con l’Altro è segnato dal declino della funziona paterna, declino che lascia il soggetto privo di riferimenti simbolici. Così i nuovi sintomi, di cui il panico è fulcro e base, per molti, poggiano su questo altro-Padre lontano e invischiante, con il contesto sociale che dà direttive ad un Io fragile che viene scisso e mosso senza possibilità di affrancamento e autonomia psichica. Il tramonto della funzione (edipicamente) strutturante dell’Ideale ha lasciato il posto ad un imperativo che impone una spinta all’eccesso. Nell’epoca contemporanea l’unico Ideale è infatti quello (anti-ideale), cinico, della spinta a godere. Tra Freud e noi passa lo spartiacque di un mutamento antropologico che ha visto la trasformazione del messaggio delle istanze sociali: dall’interdetto rivolto al desiderio si è passati ad un invito a godere in modo sempre più compulsivo (J.-A. Miller). Infatti, nel periodo storico in cui Freud scopriva e inventava la psicoanalisi, il desiderio inconscio si manifestava come una irriducibile spinta al soddisfacimento. Tutto questo era la fonte di quel disagio che poneva in conflitto soggetto e civiltà: affinché il soggetto potesse partecipare alla condivisione di valori comuni doveva rinunciare a una parte del suo godimento. La funzione d’interdizione che attraversava il complesso d’Edipo era in sintonia con le esigenze normative del legame sociale.
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Novembre 2024
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