Il DSM-5 (2014) include nei Disturbi da sintomi somatici e disturbi correlati le seguenti categorie diagnostiche: 1)Disturbo da sintomi somatici (che include anche il Dolore cronico) 2)Disturbo da ansia di malattia (ipocondria) 3)Disturbo di conversione 4)Fattori Psicologici che influenzano altre condizione mediche (come diabete, fibromialgia, cefalee, emicrania, colon irritabile, reflusso gastroesofageo) 5)Disturbo Fittizio. La natura primariamente fisica del disturbo fa si che le persone si rivolgano principalmente a strutture mediche. In particolare, i quadri clinici che più frequentemente sembrano presentarsi al Medico di Medicina Generale si caratterizzano per (Cimino, 2009):1)dolore persistente: sintomi dolorosi di solito monodistrettuali, mal localizzabili e con decorso caratterizzato da momenti di relativo benessere e da fasi di riesacerbazione (per esempio cefalea, cervicalgia, lombalgia, dolore addominale, eccetera);2)forme monosintomatiche che coinvolgono principalmente un apparato (per esempio disequilibrio, nausea, gastralgia, eccetera); 3)forme multisintomatiche che coinvolgono diversi apparati; 4)disturbo ipocondriaco: convinzione di avere una grave malattia fisica basata sull’erronea interpretazione di sintomi somatici da parte del soggetto che pone un’attenzione esagerata alle proprie funzioni fisiologiche. Prospettive psicodinamiche L’esperienza della psicoanalisi mette in evidenza la dimensione “altra” che abita nel cuore dell’Io. Freud ci consegna la nozione di inconscio per chiarire la natura di quelle ragioni che, al di là del campo di giurisdizione dell’io cosciente, delineano la trama simbolica del percorso esistentivo di ciascuno. Alcune volte però nell'ascolto clinico sembriamo trovarci di fronte a un soggetto senza inconscio o a un corpo senza inconscio. La tessitura significante dell'attività verbale e non verbale di alcuni pazienti mette in luce una sorta di “desimbolizzazione” della parola. Si tratta di una “dissociazione” tra il registro dell’esperienza subsimbolica e quello simbolico, tra corpo e mente. Nel fenomeno dell'alessitimia l’articolazione che di parola in parola dà senso ad un percorso esistenziale appare solidificata, non c’è quel gioco dei significanti che attraverso la metafora e la metonimia potrebbe mostrare la pluridimensionalità di un messaggio vissuto, di una parola incarnata. A differenza della conversione isterica, dove il sintomo del corpo ha valore di metafora, l’alessitimia rivela una desimbolizzazione del vissuto corporeo che non riguarda soltanto la capacità evocativa della parola ma anche la funzione dialettica del linguaggio. L'olofrase L’olofrase è un concetto della psicoanalisi lacaniana mutuato dalla linguistica: durante l’apprendimento del linguaggio i bambini attraversano una fase in cui utilizzano una singola parola per trasmettere il significato di una intera frase. Nella sua applicazione lacaniana l’olofrase serve a indicare alcune condizioni soggettive dove al posto della catena significante (la frase) ci troviamo di fronte a un congelamento dell’articolazione significante. In questi casi la significazione del discorso del paziente viene bloccata perché non c’è un rimando da un significante all’altro, come se un significante riassumesse in sé tutto ciò che aveva da dire. Nelle fasi iniziali di una cura ciò risulta molto problematico perché abbiamo bisogno di una minima articolazione significante per cogliere la struttura del soggetto. La catena significante produce senso perché un significante rimanda a un altro significante. La formula S1-S2 sta ad indicare la base di partenza di ogni processo di significazione: c’è una parola che rimanda a un’altra parola che poi si riaggancia a un’altra parola e così si costruisce pian piano il senso di una frase. L’olofrase non è un concetto clinico che permette di fare diagnosi differenziale sulla struttura del soggetto, sebbene indichi un certo funzionamento della struttura. Lacan elimina nella funzione dell’olofrase ogni contingenza fenomenale e ne fa così un termine della struttura. Livella così l’olofrase alla solidificazione della coppia di significanti S1 S2. Il significante non può designarsi da solo, ma è designato da un altro significante. Tra un significante e il significante con cui il primo significante è designato c’è una non-coincidenza, una faglia, un intervallo, che permette ci sia metafora, e cioè che ogni significante possa venire al posto di un altro e produrre così una certa significazione. Essa fonda nello stesso tempo il desiderio dell’Altro, per il fatto che questo desiderio può essere così interrogato da parte del soggetto. Nel Seminario XI Lacan arriva a formulare che “quando non c’è intervallo tra S1 e S2, quando la prima coppia di significanti si solidifica, si olofrasizza, abbiamo tutta una serie di casi, anche se, in ciascuno, il soggetto non occupa lo stesso posto” (J. Lacan, Il seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, p. 233). Lacan usa l’olofrase per indicare diverse condizioni soggettive tra cui la psicosi e il fenomeno psicosomatico. Sono situazioni cliniche ben diverse che sono tuttavia accomunate dalla difficoltà del soggetto nel dare avvio alla catena significante e di conseguenza anche nel non potersi appoggiare all’Altro. E ricordiamo che l’Altro nella prospettiva di Lacan va inteso sia come Altro del linguaggio che come Altro del desiderio. Olofrase o conversione somatica? Nel fenomeno psicosomatico l’olofrase serve a illustrare un funzionamento del sintomo ben diverso dalla conversione somatica che troviamo invece nella sintomatologia isteriforme. Nell’isteria il sintomo è un sintomo parlante, rimanda cioè a una trama significante inconscia. Nella nevrosi isterica il sintomo è il significante di un significato inconscio perché è un significante che rimanda a un altro significante. Il sintomo isterico viene vissuto come un messaggio che interroga il soggetto e nel corso della cura si predispone ad essere accostato con l’interpretazione. Il sintomo isterico è una traccia nel corpo che domanda di essere riconosciuta: è un sintomo che attende di incontrare l’Altro in grado di interpretarla. Il fenomeno psicosomatico esprime invece un sintomo che non domanda nulla, esso consiste come puro evento di corpo che non apre alcuna interrogazione soggettiva.
0 Comments
Una fobia specifica è una paura intensa e irrazionale di un determinato oggetto o situazione. Questo disturbo d'ansia colpisce circa 19 milioni di adulti e gli individui di sesso femminile hanno due volte la probabilità rispetto a quelli di sesso maschile di avere una fobia specifica. Alcuni pazienti soffrono contemporaneamente di più fobie specifiche.
Ci sono quattro categorie di fobia specifica: 1)Naturale, compresa la paura del tuono e del fulmine (astrafobia) o dell'acqua (l'idrofobia) 2)Mutilazione, compresa la paura del dentista (dentofobia) o iniezioni (tripanofobia) 3)Animale, inclusi cani (cynophobia), serpenti (ophidiophobia) e insetti (entomofobia) 4)Situazionale, compreso il lavaggio (ablutofobia) e spazi chiusi (claustrofobia). Accanto alle fobie specifiche, in posizione intermedia rispetto all'ansia generalizzata, troviamo l'ansia sociale, conosciuta anche come fobia sociale, che è un disturbo psicologico caratterizzato da una paura intensa e persistente delle situazioni sociali o di performance in cui una persona teme di essere giudicata, osservata o imbarazzata. Le persone che soffrono di ansia sociale possono sperimentare un forte disagio emotivo in contesti come parlare in pubblico, incontrare nuove persone, partecipare a riunioni o semplicemente svolgere attività quotidiane di fronte agli altri. Prospettive psicodinamiche Per la psicoanalisi la fobia ha una precisa funzione: quella di legare l'angoscia. Forse il riferimento al sintomo fobico può insegnarci qualcosa per districarci meglio fra i sintomi di angoscia, ansia e panico. L'oggetto fobico dà un nome all'ansia (il cavallo nel caso del Piccolo Hans descritto da Freud), la localizza in un contesto preciso sopperendo ad una carenza della funzione del Padre (funzione carente che in psicoanalisi struttura la nevrosi). Preoccupazioni agorafobiche (guidare in autostrada) o claustrofobiche (prendere l'ascensore) e fobie degli animali ( ragni, cani, ecc.) sono molto comuni e svolgono un compito preciso che è quello di liberare il soggetto dall'ansia generalizzata. La fobia delimita l'angoscia e ne lascia il soggetto al riparo praticamente in tutti gli altri ambiti della vita. Basta evitare la situazione fobica per sperimentare una riduzione dell'ansia o persino una completa calma e tranquillità. Nel panico vi è uno spavento paragonabile a quello tipico dell'incontro con l'elemento fobico. Ma solo a fatica vi scorgiamo l'oggetto. Un terrore senza nome. Non vi è un nome che definisca cosa incute paura. Chi soffre di attacchi di panico è, in effetti, spaesato dal non sapere dove potrebbe verificarsi questo attacco violento. Per cui se il fobico si limita ad evitare quello specifico oggetto per poter vivere un'esistenza serena in cui l'angoscia è ridotta, il panico comporta una devastazione dell'esistenza stessa. Lacan nel Seminario IV ci dice che la fobia dei cosiddetti spazi aperti "ci presenta un mondo costellato di segni di allarme che disegnano un campo". Con l'aiuto della fobia si instaura un nuovo ordine dell'interno e dell'esterno, una serie di soglie che strutturano il mondo. Il sintomo fobico si iscrive nella logica dell'Edipo. Fino alla soglia temuta il soggetto è tutelato non solo dal potersi allontanare con facilità da un certo luogo rientrando verso casa ma anche dalla presenza del regime edipico che è per lui, comunque, rassicurante. Oltre questo livello incontra l'esperienza della non familiarità e si imbatte in una 'voragine', in un baratro ignoto. Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è secondo la psichiatria (DSM V) un disturbo caratterizzato da ossessioni e compulsioni. Le ossessioni consistono in idee, pensieri, impulsi o immagini ricorrenti o persistenti e spesso sentite come intrusive e inappropriate, in grado di provocare ansia e angoscia. Le compulsioni consistono invece in tutti quei comportamenti messi in atto a seguito delle ossessioni, con l’obiettivo di ridurre gli stati di ansia e di angoscia che esse provocano. Secondo gli studi condotti, il DOC ha incidenza del 2-3% (Kaplan et al. 2003). Nell’adolescenza sono le persone di sesso maschile a venirne più colpite. Nell’età adulta, invece, non si notano significative differenze tra i due sessi. L’esordio del DOC avviene tipicamente intorno ai 20 anni e nella maggior parte dei casi in maniera improvvisa, ma è frequente anche nelle persone che si rivolgono a uno specialista qualche anno dopo che il quadro clinico si è manifestato. In circa il 60% dei casi, la sintomatologia inizia a seguito di un evento stressante. Freud e la nevrosi ossessiva Sigmund Freud ammise la difficoltà di curare la “nevrosi ossessiva” con il metodo psicoanalitico dopo averlo studiato su un suo paziente, noto negli scritti freudiani come “l’uomo dei topi”. Nella fase di sviluppo sadico-anale si possono sviluppare anche contemporaneamente varie nevrosi, attraverso vari meccanismi come scissione dell’Io, fissazione di libido e regressione dalla fase fallica a quella anale, mancato superamento del Complesso di Edipo: una di queste è il disturbo ossessivo compulsivo, chiamato in psicoanalisi “nevrosi ossessiva” o “nevrosi ossessivo-coattiva”. In particolare se al bambino è stata data un’educazione sfinterica rigida, egli, come limita la funzione dell’escrezione, maturerà una personalità rigida e ordinata, spesso perfezionista. Il contenuto ossessivo spesso è derivato da esperienze varie, molto spesso da trasfigurazione di aspetti infantili. Nel caso dell’Edipo non risolto, il paziente teme di uccidere il padre e aggredire sessualmente la madre (o di ucciderla) e poi autocastrarsi per punizione. Ci sono molti esempi (paura della propria sessualità che viene vissuta a volte come ribellione e a volte con senso di colpa, paura dello sporco, pensiero magico, coazioni/compulsioni varie; Freud li paragona ai rituali della religione, in quanto entrambi servono ad ottenere il perdono e la benevolenza di un’autorità superiore amata ed odiata, ossia del genitore umano e divino), che emergono dall’analisi, e compito dell’analista è identificarli tramite i sogni e il dialogo aperto col nevrotico, promuovere la sublimazione e liberare la libido fissata traumaticamente. Lacan: l'ossessivo e la condanna di Tantalo Per Lacan si tratta di un desiderio interdetto, vietato e tale interdizione viene attribuita all'Altro, non assunta dal soggetto stesso. Il timore di ritorsione da parte dell'Altro implica un'inibizione di tutte le manifestazioni del desiderio: il soggetto se ne distacca tramite dei meccanismi difensivi di annullamento ed isolamento dell'affetto. Il che equivale a negare e a raffreddare ogni spinta desiderante, fino all'azzeramento, alla totale mortificazione. Lacan paragona l'ossessivo alla figura di Tantalo. Ecco l'immagine che rappresenta in definitiva l'altalena fra l'ossessivo e il suo oggetto di desiderio. Nella misura in cui si avvicina l'oggetto si ritrae, gli sfugge. L'eccessiva prossimità all'incandescenza lo spinge automaticamente ad allontanarsi, in un repentino raffreddamento della fiammata. Se l'Altro fornisse il consenso, il plauso, allora sì che l'ossessivo potrebbe avvicinarsi al suo oggetto. Ma tale convalida non è possibile, nella misura in cui è connaturata al desiderio stesso una spinta sovversiva. Desiderare significa sempre voler superare un limite, spingersi più in là, compiere un atto contro ogni logica del bene e dell'utile. Il desiderio è soggettivo, è il cuore del soggetto, dunque si trova ad essere strutturalmente in opposizione alle aspettative dell'Altro. L'ossessivo cerca di mantenere intatto l'Altro. Sembra che abbia altre mire, che voglia delle cose sue, ma al fondo punta soltanto a far esistere l'Altro con la A maiuscola, ovvero una Legge senza scarti, una regola universale che dia ragione di tutti i comportamenti umani e li incaselli sulla base del "giusto" e dello "sbagliato". Il suo ideale è un mondo articolato esclusivamente nei termini di significante, un mondo cioè spurgato dalla pulsione, dal germe del desiderio, dalla divisione umana, dalle contraddizioni e dal caos. Un mondo privo di tutto ciò è quindi un mondo morto. L'ossessivo si ingaggia, per ottenerne il permesso e dunque per far esistere l'Altro, in tutta una serie di compiti particolarmente duri, spossanti, in cui risulta bravissimo. La finalità è avere l'Altro come testimone invisibile, come spettatore che dica che è proprio un tipo in gamba! La ricerca del consenso esula dalla mera performance, ma travalica in un altro campo, quello dell'essere. L'ossessivo vuole essere domandato dall'Altro, vuole esserne l'oggetto prezioso. Il far esistere un Altro pieno, compatto, tutore della Legge, va di pari passo con la sua distruzione. Questa è la famosa ambivalenza dell'ossessivo, che da una parte erotizza la Legge, la cerca, la adora, dall'altra la odia, la percepisce come una castrazione intollerabile. Contemporaneamente al rapporto con la Legge c'è nell'ossessivo quello con il padre, amato ma nello stesso tempo odiato in quanto rivale in rapporto alla madre. "Il desiderio dimostra qui di portare il marchio che il desiderio è stato innanzitutto accostato da lui come qualcosa che si distrugge, in quanto gli si è presentato come quello del suo rivale. L'approccio dell'ossessivo al proprio desiderio rimane dunque segnato da questo marchio che fa sì che ogni approccio lo faccia svanire". L'ossessivo fin da bambino entra nel desiderio sotto la stella dell'odio e della distruzione. Il desiderio dell'Altro, quello del suo rivale, si salda a fantasmi di distruzione. Aggressività e desiderio si legano in un impasto difficile da sciogliere, che lo condanna a tenersi a distanza rispetto al desiderio attraverso una sistematica opera di distruzione del proprio e dell' altrui. Lo “stato di paura” di chi ha vissuto l’esperienza del panico sembra una sorta di protezione dall’angoscia del suo ritorno preferendo il restringimento degli orizzonti della libertà all’affacciarsi del mondo esterno del possibile, con il suo carico di imprevedibilità. Paura e ansia (angoscia) non sono dinamicamente autoescludentisi. Ci può pertanto essere uno stato di paura-con-oggetto che subentra all’angoscia, ma sul quale può altrettanto innestarsi di nuovo l’angoscia. Pertanto si può passare dalla paura che blocca e invita alla fuga (evitamento) come nell’agorafobia o nella fobia sociale, all’angoscia inquieta, tormentosa e paralizzante. L’individuo che patisce il panico non accetta la possibilità di soffrire, il male è qualcosa che “capita” devastando, che arriva da un altrove e modifica l’Io, non c’è identificazione ma neanche la possibilità di prenderne le distanze. Così questi pazienti, nel tentativo di liberarsi dalla morsa dell’attesa che impietosamente si fa ansia, quasi ossessivamente, rendono presente il futuro nell’anticipo; vi è, in buona sostanza, il tentativo di rendere noto l’ignoto, di oggettivare l’eventualità non conosciuta. È, in fondo, il tentativo inconsapevole di trasformare l’ansia indeterminata in paura determinata. Quest’ultima, a differenza dell’ansia, è dotata di confini, vede l’oggetto che inquieta e permette la fuga che nel disturbo di panico, quasi sempre, si concretizza nell’evitamento di situazioni o persone. Per cui spesso si vive, accanto al tempo dell’anticipo, il tempo del rinvio, che evita il mettersi all’opera fino a quando non lo pretenda l’incombenza della necessità, di quello stato di costrizione che è antitetico alla libertà. Si verifica cioè nel panico un momento in cui il corpo si percepisce come vita al di fuori di qualsiasi rappresentazione, e quindi al di fuori di qualsiasi rappresentazione in grado di contenerla. Assistiamo al crollo di ogni difesa, l’impossibilità di tirarsi fuori da una vita a cui non è possibile pensare, da cui non è possibile prendere una distanza rappresentativa perché investe e travolge. Questo può darci il senso dell’”impotenza” freudiana ( Hilflosigkeit ): sentirsi invasi dalla pressione di una vita senza limiti e senza controllo. Nella contemporaneità il rapporto con l’Altro è segnato dal declino della funziona paterna, declino che lascia il soggetto privo di riferimenti simbolici. Così i nuovi sintomi, di cui il panico è fulcro e base, per molti, poggiano su questo altro-Padre lontano e invischiante, con il contesto sociale che dà direttive ad un Io fragile che viene scisso e mosso senza possibilità di affrancamento e autonomia psichica. Il tramonto della funzione (edipicamente) strutturante dell’Ideale ha lasciato il posto ad un imperativo che impone una spinta all’eccesso. Nell’epoca contemporanea l’unico Ideale è infatti quello (anti-ideale), cinico, della spinta a godere. Tra Freud e noi passa lo spartiacque di un mutamento antropologico che ha visto la trasformazione del messaggio delle istanze sociali: dall’interdetto rivolto al desiderio si è passati ad un invito a godere in modo sempre più compulsivo (J.-A. Miller). Infatti, nel periodo storico in cui Freud scopriva e inventava la psicoanalisi, il desiderio inconscio si manifestava come una irriducibile spinta al soddisfacimento. Tutto questo era la fonte di quel disagio che poneva in conflitto soggetto e civiltà: affinché il soggetto potesse partecipare alla condivisione di valori comuni doveva rinunciare a una parte del suo godimento. La funzione d’interdizione che attraversava il complesso d’Edipo era in sintonia con le esigenze normative del legame sociale. Domenico Cosenza , nel suo saggio Il cibo e l'inconscio. Psicoanalisi e disturbi alimentati, Franco Angeli, Milano 2018, separa nettamente, ovvero strutturalmente
1) l’anoressia infantile, 2) l’anoressie e la bulimia che lui chiama nevrotico-isteriche, 3) l’anoressia che lui qualifica di vera, specifica soprattutto dell’adolescenza e per 9/10 femminile. Egli situa la terza piuttosto sul versante psicotico, ma non completamente. Se i disturbi alimentari “veri” fossero una forma psicotica, rientrerebbero in qualche modo in una griglia esplicativa classica. Ma non è questo il caso. L’anoressia infantile coglie indifferentemente maschi e femmine, mentre per le anoressie adulte la preponderanza femminile è schiacciante. È evidente che l’interesse maggiore deve concentrarsi sull’anoressia “vera”, in quanto quella isterico-nevrotica non è altro che un sintomo nevrotico che va trattato come ogni altro sintomo nevrotico. Cosenza dedica comunque anche un capitolo molto illuminante all’obesità, che distingue dalla bulimia. Ogni pretesa esplicativa dell’anoressia “vera” deve render conto evidentemente di due particolarità essenziali, e aggirarle significa fallire di fatto ogni spiegazione della sindrome: a. La specificità quasi totalmente femminile dell’anoressia (ma anche della bulimia), e il suo concentrarsi negli anni della pubertà e dell’adolescenza b. La specificità geo-economica, per chiamarla così, dell’anoressia vera: il fatto che essa prosperi nei paesi più industrializzati, in aree dove nessuno più soffre la fame. Anche nelle classi ricche dei paesi più poveri, non industrializzati, l’anoressia è rara. Cosenza non si sottrae all’appuntamento con la spiegazione di queste due specificità. L’”anoressia vera” come risulta dalle riflessioni dell’autore, costituisce una sfida alla psicoanalisi. Essa sembra sottrarsi sia alla teoria che alla clinica psicoanalitica, in quanto l’anoressia vera metterebbe in atto un vero rifiuto dell’inconscio. Nella terminologia lacaniana: l’anoressia non è un appello all’Altro, ma un rifiuto dell’Altro, dell’inconscio. Questo significa che l’anoressia non è veramente un sintomo, dato che il concetto di ‘sintomo’ è inscindibile dalle strutture nevrotica e psicotica che lo supportano: l’anoressia mentale non significa insomma qualcosa d’altro da sé, non è qualcosa da interpretare. Evitare il cibo non è una metafora. Alla via del sintomo l’anoressica vera preferisce la via del rifiuto radicale (del cibo). Il rifiuto anoressico è solo godimento reale, in quanto tale senza senso; un’esperienza di godimento orale. Ciò accosta l’anoressia alle tossicodipendenze, e alle dipendenze in genere (come dipendenza dal gioco o dal sesso) con cui costituisce quel che Cosenza, assieme ad altri psicoanalisti lacaniani, chiama Nuove Forme del Sintomo (NFS). L’interesse per le NFS è il segno di una crisi (che potrebbe essere di crescita) della psicoanalisi. In effetti, nelle NFS, scrive Cosenza, un individuo non si presenta diviso (come il nevrotico) e nemmeno frammentato (come lo psicotico) ma come indiviso, unificato. Rigidamente uno nel perseguire il suo godimento. Le NFS, anoressia vera compresa, chiuderebbero la divisione soggettiva. Potremmo dire che l’anoressica pratica una vita psichica anti-psicoanalitica. Ma l’ipotesi di un soggetto unificato, indiviso, è ciò che la psicoanalisi aveva escluso come possibile, non solo tra nevrotici e psicotici, ma tra tutti i soggetti umani. Si delinea qui un ripensamento della teoria psicoanalitica della soggettività. In effetti, le NFS metterebbero in atto un rifiuto dell’inconscio che è esso stesso inconscio, insomma, questo rifiuto è attività inconscia. Per la psicoanalisi, anche quando il rifiuto di qualcosa di vitale è esplicito, esso non può venire che dall’inconscio. Si coglie qui la paradossalità del discorso: le NFS sarebbero insomma rifiuti inconsci dell’inconscio, dato che il modo di aggirare l’inconscio è esso stesso un meccanismo inconscio. In effetti, la psicoanalisi spiega unicamente a partire dall’inconscio. Per esempio, Cosenza dice che nell’anoressia vera domina una legge superegoica assoluta senza desiderio: “mangia niente”. Il Super-io comanda alla ragazza l’estirpazione della spinta desiderante dal proprio corpo. Ma il Super-io in Lacan è una figura dell’Altro, insomma è sempre inconscio. Allora, l’anoressia è un paradossale rifiuto dell’inconscio nei confronti di sé stesso? È un auto-rifiuto dell’inconscio? Per Lacan l’anoressia è una forma di godimento. Anche se Lacan ha oscillato in relazione all’anoressia, un punto è fermo: l’anoressia (ripetiamo, quella ‘mentale’, ‘vera’) non è un non mangiare, ma è azione: è mangiare niente. È interessante che nel suo libro Cosenza non usi il termine niente ma il francese rien. Probabilmente questo è dovuto all’etimologia stessa del termine rien, che è l’accusativo del latino res, cosa. Quando in francese si dice “Je ne mange rien” è come se si dicesse “Io non mangio cosa”. Insomma, rien non è nulla, ma è un oggetto specifico, qualcosa. L’anoressica, mangiando rien o cosa, è una bulimica di niente; si fa scorpacciate di nulla. Se rien o niente è un oggetto, c’è da chiedersi che rapporto esso abbia con gli altri oggetti della classica teoria psicoanalitica delle pulsioni, che Lacan chiama oggetti a (che rapporto con l’oggetto seno, nella pulsione orale, con l’oggetto feci nella pulsione anale, con l’oggetto fallo). E con l’oggetto voce, nella pulsione vocante. on l’oggetto sguardo, nella pulsione scopica. Cosenza si pone la questione e conclude che l’oggetto rien non ha un corrispettivo in una zona erogena specifica, anche se nell’anoressia evidentemente l’oggetto rien è primariamente legato all’oralità. Il rien, oggetto che fa godere l’anoressica, è quindi un oggetto sui generis, in quanto è tutto in funzione del godimento. Il rien dell’anoressica è come la droga per il tossicodipendente, o come il gioco d’azzardo per il giocatore compulsivo: questi oggetti non suscitano il desiderio, che per Lacan viene sempre dall’Altro, ma ne chiudono lo spazio. Diverso è nelle anoressie come sintomi isterici, ad esempio. L’isterica può dire: “Se non mi ami, non mangio”, oppure “Se mi desideri come donna, non mangio”. Come si vede, sono delle interlocuzioni rivolte all’Altro. Ma l’anoressica vera non interloquisce con nessuno: gode e basta. Rifacendosi a Jacques-Alain Miller, Cosenza dice: “L’oggetto rien è il solo oggetto a che è causa di non-desiderio”. Il che è un paradosso, dato che il non-desiderio diventa qui un effetto, e non un non-effetto. E’ un oggetto di desiderio che cancella il desiderio… L’assenza di desiderio risulta insomma essere qualcosa che si produce, non uno stato neutro della psiche. Questa tesi potrebbe quasi essere presa come una smentita della teoria lacaniana, per la quale l’oggetto a è l’oggetto che causa il desiderio. Rien è invece un oggetto che sembra causare non desiderio, ma godimento. E in effetti Cosenza dirà che rien è un significante al posto del fallo, qualcosa quindi di distinto dall’oggetto. Un oggetto-significante, un centauro. Cosenza scriverà allora che l’anoressia, come abbuffata di niente, è godimento dell’Uno senza Altro. L’anoressica è una, è uni-ficata, manca di Altro. Potremmo andare persino oltre, e pensare che le NFS siano in realtà le forme più vecchie, ovvero quelle più fondamentali. In effetti, per Freud, è evidente, l’essere umano è una macchina per godere. Nevrosi, perversioni e psicosi non sarebbero allora le formazioni standard dell’inconscio, ma l’essenza di ogni nevrosi, psicosi o perversione sarebbe proprio nelle addictions, di cui l’anoressia vera fa parte: un modo di godere che aggira completamente l’Altro. Ovvero, in questa ottica, nevrosi, psicosi e perversioni sarebbero casi speciali, obliqui, di una più generale, più fondamentale, soggezione al comando di godere prima di ogni Altro. L’inconscio sarebbe una via lunga, intricata, per giungere comunque al godimento. L’anoressia vera, le dipendenze, sarebbero insomma la forma primaria, nuda, pre-inconscia, del puro esprimersi dello psichismo come teso sempre al godimento. Una ricerca del godimento che corto-circuita la pista simbolica. Identità sessuale, l'identità di genere e orientamento sessuale
Negli ultimi anni, c’è stata una evoluzione nel modo di concepire la sessualità. I termini più usati sono: identità sessuale, identità di genere, orientamento sessuale: 1)identità sessuale: si tratta di tutti quegli aspetti psicologici e di tutte quelle percezioni che permettono all'individuo di conoscere e definire la propria sessualità; 2)identità di genere: è legata all'identità sessuale di ciascuno e permette a ogni individuo di definirsi come uomo o donna, indipendentemente dalle caratteristiche biologiche e a seconda della definizione che la società dà a ogni ruolo di genere (ossia cosa intende per uomo o donna); 3)orientamento sessuale: questo termine riguarda il tipo di attrazione sessuale di ogni persona (verso individui dello stesso sesso, del sesso opposto o da entrambi i sessi L'identità sessuale, ossia la percezione che ogni persona ha della sua sessualità, è composta da diversi elementi, fra cui: 1)sesso biologico: riguarda gli attributi biologici e anatomici che indicano la distinzione fra sesso maschile e sesso femminile; 2)identità di genere: dipende da come ogni individuo si identifica (uomo o donna); 3)ruolo di genere: riguarda la definizione dei comportamenti che, all'interno di una determinata società, vengono riconosciuti e definiti come femminili o maschili; 4)orientamento sessuale: definisce se l'individuo è attratto sessualmente dagli individui dello stesso sesso, del sesso opposto o da entrambi i sessi. L'identità di genere solitamente corrisponde con il proprio sesso biologico (cisgender). Tuttavia, esistono casi in cui ciò non avviene. L'identità di genere di ognuno è presente fin dall'infanzia. Quando l'identità di genere non corrisponde con il sesso biologico abbiamo diverse opzioni, fra cui: 1)transessuali: in questo caso, l'identità di genere non corrisponde con il sesso biologico e si cercano di far coincidere, attraverso la chirurgia, i propri attributi sessuali con il sesso corrispondente; 2)transgender: l'identità di genere non corrisponde con il sesso biologico ma l'individuo non cerca di cambiare le sue caratteristiche anatomiche; 3)intersessuali: comunemente ed erroneamente definiti "ermafroditi", gli intersessuali sono quelle persone che nascono con caratteristiche anatomiche (sesso biologico) di entrambi i sessi e possono percepirsi come transgender o come cisgender. In generale, si tende a classificare l'orientamento sessuale in tre tipi: eterosessualità, l'attrazione per il sesso opposto; omosessualità, l'attrazione per lo stesso sesso; bisessualità, l'attrazione per entrambi i sessi. Nonostante ciò, sono sempre più le definizioni e le persone che si riconoscono in altri tipi di orientamenti sessuali, ad esempio: 1)pansessualità: attrazione verso qualsiasi genere (uomo, donna, transgender, ecc.); 2)asessualità: mancanza di attrazione sessuale verso qualsiasi sesso. In questo grande universo che è la sessualità, è possibile che possano sorgere dubbi sulla propria identità sessuale, sul proprio orientamento o sulla propria identità di genere. In alcuni casi, infatti, più che la definizione in sé, può essere difficile accettare la propria identità di genere o il proprio orientamento sessuale a causa dello stigma sociale che spesso accompagna questa presunta diversità. Prospettive psicodinamiche Lacan, seguendo Freud, pensa che la scelta del sesso non dipenda unicamente nè dall'anatomia, nè da condizionamenti culturali e sociali, anche se, la scelta del sesso, che è una scelta inconscia, implica per un verso l'anatomia, cioè il fatto che il nostro corpo appartiene ad un genere, e per un altro verso i condizionamenti che il nostro corpo ha subito dal contesto sociale, culturale e familiare in cui è cresciuto. La scelta del sesso tiene conto dell'anatomia e dei condizionamenti socio-culturali, ma si manifesta attraverso una scelta soggettiva, cioè una mediazione soggettiva dell'anatomia e dei condizionamenti sociali, al punto che Lacan sostituisce la parola sesso con la parola "sessuazione". La parola sesso infatti è una parola che appartiene ad una logica classificatoria (cioè al fatto che in questo sesso c'è o meno il fallo, quello maschile con l'attributo fallico, quello femminile, dove è mancante). La sessuazione sarebbe il modo in cui ciascuno di noi ha fatto sue o ha ripreso in modo proprio, i condizionamenti anatomici e della famiglia, della cultura. In questo contesto, dove la sessualità è innanzitutto una sessuazione del corpo che avviene attraverso l'inconscio, Lacan avanza un'idea di eterosessualità. Egli dice che in fondo l'amore implica necessariamente l'eterosessualità, cioè l'amore è solo amore dell'eteros, cioè dell'Altro, cioè della differenza, non è l'amore dell'Uno che è un'espressione narcisistica dell'amore e che va a finire in una dimensione suicidaria, come dimostra il mito di Narciso. Lacan dice che dove c'è eterosessualità c'è amore per la donna. Ciò significa che c'è eterosessualità dove c'è amore per la differenza, e questo a prescindere dal fatto che implicati siano due omosessuali, due lesbiche, due eterosessuali. Ci sono coppie eterosessuali dal punto di vista anatomico che producono delle fusioni narcisistiche mortifere, come ci sono delle coppie omosessuali (sempre dal punto di vista anatomico) dove circola la dimensione eterosessuale. Allora tutte le riflessioni di oggi, inerenti la possibilità del matrimonio tra omosessuali, l'adozione di bambini a coppie di omosessuali, se può esistere una famiglia monosessuale, vanno approfondite con la problematica inerente l'eterosessualità intesa secondo il concetto lacaniano sopra esposto, cioè verificando dove c'è eterosessualità. Questo perché l'eterosessualità non anatomica ma relazionale può rendere possibile l'adozione della vita. Da questo punto di vista Lacan ci aiuta a liberarci da certi retaggi arcaici che hanno avuto anche un peso notevole nella psicoanalisi e che hanno sempre considerato in fondo l'omosessualità una forma di degradazione perversa della sessualità, come se nell'eterosessualità la degradazione perversa della sessualità fosse necessariamente risparmiata, mentre sappiamo benissimo che non è così, cioè sappiamo che nello scambio cosiddetto eterosessuale dal punto di vista anatomico la presenza di perversioni può essere altrettanto invasiva di quello che accade in una coppia omosessuale. Lacan: l’identità sessuale tra simbolico e reale Il contesto culturale in cui Freud rifletteva sulla differenza dei sessi vedeva da un lato le riflessioni della scienza e dall’altro il dibattito sociale sostenuto dal movimento femminista emancipazionista. Oggi siamo in un altro tempo. I teorici del queer con una messa in discussione dell’unità, stabilità e utilità politica delle identità sessuali, hanno contribuito in modo significativo al ripensamento sul significato di genere e di transgender. Nel discorso sociale non esistono più due modi di nominare i sessi, ma neanche tre o quattro, assistiamo piuttosto a una proliferazione di nominazioni: uomo, donna, transgender, cisgender, transessuale, queer, solo per citarne alcuni. Lacan scrive in L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud che “la cabina offerta all’uomo occidentale per soddisfare i suoi bisogni naturali (…) sottomette la sua vita pubblica alla legge della segregazione urinaria”[1]. In questo modo, richiamando l’insegna delle due toilette uomo-donna ci indica come il soggetto è chiamato ad assumere, a fare suo il significante uomo o donna per poter varcare l’una o l’altra soglia. Assumere il proprio essere sessuato richiede una simbolizzazione, ma prima con Freud e poi con Lacan impariamo che essa non sarà sufficiente ad assumersi il proprio sesso, dal momento che nell’inconscio la differenza dei sessi non si scrive. Con l’elaborazione dell’ultimo Lacan impariamo che ciò che fonda il nome per ciascuno non dice del simbolico in gioco, ma del reale che c’è nel lalingua, quale dimensione particolare farcita di godimento. Lalingua è ciò che c’è di più specifico di ogni parlessere. ed è ciò che veicola il godimento. Quando Lacan durante la lezione del 9 Aprile del 1974 del Seminario Les non-dupes errent dopo che aveva introdotto le formule della sessuazione pronuncia questo frase: “L’essere sessuato non si autorizza che da sé” e aggiungerà “ (…) il fatto che lo si classifichi maschio o femmina, ciò non impedisce che il soggetto abbia la scelta” non mancherà di far sentire che questa scelta non avviene sul piano dell’Io (l’ich freudiano) ma si tratta piuttosto del situarsi dal lato del godimento donna o dal lato del godimento uomo e che esiste un reale in gioco, un referente indicibile, che condiziona il rapporto del soggetto con il sesso. Reale di cui Lacan ci dà una definizione precisa, nel seminario che tiene a Caracas nell’agosto del 1980, nominandolo come aveva già fatto come il terzo dei tre registri, insieme all’immaginario e al simbolico e aggiungendo che “[…] rimane costantemente raffigurato tramite una retta infinita, ossia con un cerchio non-chiuso che essa suppone. È questo che fa sì che esso non possa essere ammesso se non come non-tutto”, non imbrigliabile nel simbolico, sfugge, non si dice, è ciò che in una cura si produce al peggio, al nocciolo di cui non si vuole sapere nulla. Lacan negli anni ’70 cercherà di mostrare l’evanescenza della funzione paterna che per lungo tempo aveva organizzato tutti i livelli del legame sociale e centrerà il suo interesse sulle possibili scritture del non-rapporto sessuale in termini logici, laddove il fallo non è altro che un significante che permette di velare una parte del godimento del soggetto e compare dunque come sembiante del godimento. Dal 1971 Lacan considera il fallo un ostacolo al rapporto sessuale. Prima sembrava che qualcosa del rapporto sessuale potesse scriversi per la via dell’identificazione all’essere il fallo o all’averlo. Ora il fallo è un ostacolo al rapporto, poiché il godimento fallico, fuori corpo, non dice niente del femminile in cui è in gioco un godimento del corpo. Il fallo come significante procura una sembianza ma non colma lo scarto tra l’identità così detta sessuale e l’identità relativa al godimento. Nell’incontro con soggetti della contemporaneità che si definiscono transgender, queer, transessuali, ecc, si constata che i nuovi modi di nominarsi non fanno che mettere in rilievo che è in un annodamento singolare che il soggetto può costituirsi come sessuato. Si tratta dunque di tenere in conto lo sforzo che il soggetto compie per annodare, in altro modo, il suo rapporto alla sessualità dal momento che i sembianti ricevuti sono inoperanti per lui. In tutto c’è una componente di stress. Il lavoro è l’ambiente stressante per eccellenza, ma se siamo irritabili a casa è perché siamo stressati, se abbiamo le occhiaie è che siamo stressati, e così via.
Ci può entrare di tutto: il senso di fatica, la difficoltà di concentrazione, il senso di debolezza, gli indolenzimenti. Sono termini di nosologia popolare e nell’uso corrente non indicano niente di preciso. Il DSM ha importato questo termine, prelevato dal contesto in cui in medicina si definisce in rapporto a situazioni biologiche di omeostasi e di equilibrio, per farlo entrare in due disturbi del suo interminabile elenco: il disturbo acuto da stress (ASD) e il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Quest’ultimo ha una storia antica che risale ai pionier della psicoanalisi. I primi a interessarsi alle conseguenze dei traumi di guerra furono infatti gli psicoanalisti della cerchia freudiana che parteciparono alla prima guerra mondiale, avendo occasione di vedere gli effetti sui soldati dell’esposizione alle situazioni di combattimento, di pericolo di vita, di esplosioni di ordigni. Il disturbo post-traumatico da stress riguarda, nel modo più generale, eventi critici estremi, come il coinvolgimento in catastrofi naturali, in incidenti di grande portata, attentati, eventi bellici. Si sa che la formulazione attuale del disturbo con la denominazione Post-Traumatic Stress Disorder è stata inserita nel DSM III su pressione della lobby dei veterani della guerra del Vietnam, perché i reduci potessero avere i rimborsi delle cure psichiatriche. Le descrizioni abituali delle manifestazioni di questo disturbo ritrovano i fenomeni che già avevano osservato gli psicoanalisti durante la prima guerra mondiale: ripresentarsi del vissuto dell’evento, incubi che tornano incessantemente al momento del trauma riproponendolo in modo vivido e realistico, irritabilità, ottundimento, tensione continua, e via descrivendo. Il soggetto ha vissuto una situazione eccezionale, che ha interrotto l’abituale scorrere della vita, portandolo a una mobilitazione di tutte le energie e convogliandole sul fattore traumatico, come in una sovrattenzione concentrata. Potrebbe sembrare normale, in un caso simile, un bisogno di ritrovare l’abituale equilibrio e invece succede esattamente il contrario. Il soggetto non fa che tornare al momento traumatico, non riesce a staccarsene, non riesce a rientrare nel corso normale della sua vita precedente. In effetti quindi, contrariamente a quel che sembrerebbe ragionevole, il soggetto anziché fuggire dal momento traumatico vi torna continuamente. Medici, psicologi, operatori sociali e sanitari coinvolti nei primi soccorsi hanno constatato tutti i fenomeni abitualmente descritti in questi casi nei sopravvissuti a catastrofi e a situazioni eccezionalmente drammatiche: incubi che tornavano al momento traumatico, flashback che lo facevano loro rivivere. Hanno però notato, ascoltando attentamente i racconti delle persone coinvolte nella situazione traumatica, che in realtà quel che veniva rivissuto non era l’evento in quanto tale, ma piuttosto quel che in quel momento non era accaduto. Si trattasse di una persona ferita che non avevano potuto aiutare, o della possibilità di prendere un treno diverso che non li avrebbe portati nel luogo del disastro, i ricordi tornavano a quel che non era accaduto e che avrebbe modificato la scena traumatica in cui si erano trovati. Questo fa meglio capire anche il tipico senso di colpa dei sopravvissuti, che non si riferisce all’attualità del momento vissuto, ma al possibile. Il soggetto non ha potuto salvare i compagni, ma non era logicamente impossibile: forse non ha fatto la scelta giusta, forse ha provato una paura paralizzante, forse tutto si è cancellato dietro la mera preoccupazione di sopravvivere. Non sappiamo, sappiamo solo che il ritorno al momento traumatico non è mosso dalla spinta a ritrovare lo sconvolgimento del trauma, ma dalla forza d’attrazione di quel che è rimasto sospeso, da un possibile irrealizzato da realizzare, dalla ricerca di un supplemento di quel che è accaduto che ne modifichi la configurazione. Non è dunque la ricerca dello stato precedente al trauma il motore della ripetizione, ma il tentativo di dare un diverso sviluppo a quel che è accaduto, riprendendo il filo di quel che è rimasto sospeso. La ripetizione ritorna dunque non al trauma, ma a un suo supplemento irrealizzato che lo risolva diversamente, al tentativo di produrre un "plusgodere" come Lacan lo definisce nel Seminario XVII. Il rovescio della psicoanalisi. Psicodinamica delle dipendenze
Con il termine dipendenza si fa riferimento a una condizione in cui una persone assume una sostanza, come alcool, cocaina, nicotina, etc., o si impegna in un’attività come il sesso, lo shopping, il gioco d’azzardo etc., che può essere piacevole, ma il cui uso continuato diventa compulsivo e interferisce con il funzionamento sociale, lavorativo ed interpersonale del soggetto. I soggetti potrebbero non essere consapevoli del fatto che il loro comportamento è fuori controllo, causando così problemi sia per sé stessi che per gli altri. Da un punto di vista psicodinamico, Freud fu il primo a delineare un approccio sistematico volto a comprendere come la vita mentale inconscia eserciti un’influenza sulla nostra visione del mondo. La cosiddetta teoria strutturale organizza le funzioni mentali in tre istanze psichiche: l’Io, governato dal “principio di realtà” ma avente profonde radici nell’Es, ossia l’inconscio; il Super-Io, ossia un’istanza morale che detta norme e regole di comportamento, il quale a volte può divenire punitivo qualora vengano trasgredite tali regole; e infine l’Es, ossia il calderone di impulsi e desideri istintuali che sono al servizio del “principio di piacere”. L’Es è volto primariamente alla gratificazione immediata ed è quindi un’istanza puramente “egoista”, tanto da poter operare secondo il cosiddetto “spirito animale”. L’io si pone quindi come mediatore degli impulsi da parte dell’Es e del Super-io, andandoli a “modificare” per una corretta gestione dei pericoli e dei conflitti. Il super-Io emerge attraverso l’interiorizzazione dei valori e delle norme sociali. Per Freud, l’obiettivo della psicoanalisi era quello di rafforzare l’Io, al fine di riuscire a controllare meglio l’Es ed essere più indipendente dal Super-Io. L’acquisire una maggiore consapevolezza di ciò attraverso la psicoanalisi, può aiutare l’individuo a divenire meno auto-punitivo e quindi più abile a tollerare le esperienze emotive. La crescita psicologica richiede l’accettazione di sé, ossia quello stato d’animo che pone fine al conflitto tra il trasformare sé stessi e gli altri in ciò che la persona desidera o dovrebbe essere. Freud sosteneva che ogni volta che i desideri provenienti dall’Es, minacciano l’emergere del pensiero o dell’azione, nell’individuo si genera ansia. L’ansia agisce come un segnale, provocando una repressione della mobilitazione dell’Io, insieme a una vasta gamma di altre difese come la negazione e la proiezione, al fine di bloccare o mascherare la “volontà ansiogena”. La mancanza della capacità di far fronte a stati negative determina, nel paziente, l’ergersi di difese potenti, a volte intransigenti, nel tentativo disperato di evitare sentimenti negativi. La persona che utilizza una difesa sta cercando di gestire l’ansia e mantenere l’autostima. Ad esempio, gli alcolisti sono convinti di non aver nessun problema con l’alcool. Il mantenimento di sentimenti inaccettabili al di fuori della consapevolezza, apre la strada allo sviluppo di un “falso sé”. Il prezzo di questa protezione si traduce in un’incapacità a sviluppare la resilienza. In tal senso, la dipendenza è quindi descritta come una strategia difensiva per evitare la sensazione di impotenza e disperazione. L’abuso di droga è un futile tentativo per compensare, senza successo, il vuoto interiore; il tossicodipendente cerca di compensare attraverso comportamenti di dipendenza, gli stati soggettivi dolorosi legati ad una bassa autostima. L’uso della sostanza fornisce un sentimento di accettazione e una sensazione temporanea di sicurezza di sé; la dipendenza determina la creazione di un mondo immaginario, dove si esercita un controllo completo, che si sostituisce al mondo reale, dove ci si sente inutili e fuori controllo. La visione psicoanalitica suggerisce quindi che la dipendenza sia strettamente correlata ad un disturbo della regolazione di sé. Il successo della terapia è rappresentato dal cambiamento duraturo, attraverso il quale i pazienti vengono a contatto con aspetti interiori precedentemente inaccessibili. Aiutare i pazienti aumentando la capacità di impegnarsi sull’auto-riflessione, e individuando modalità alternative di gestione delle emozioni difficili, sono parte integrante dell’approccio psicodinamico per il trattamento delle dipendenze. Oggetti e Discorso capitalistico Ciascun soggetto è imbevuto di sintomo-dipendenza che promana dal discorso della civiltà contemporanea che è oggi, per Lacan, il Discorso Capitalistico. Occorre quindi analizzare quel godimento così compulsivo nella sua ripetizione per lavorare la contingenza. Sin dai primi periodi della civilizzazione gli esseri umani hanno fatto uso di sostanze per rispondere a varie questioni che li affliggevano. In ogni tempo storico le differenze in rapporto alle dipendenze si sono rese evidenti. Oggi, quindi, siamo nel tempo della dipendenza generalizzata; i DSM succedutisi ne hanno fatto e ne fanno una lunga lista diagnostica, addizionati ai fenomeni che si moltiplicano. Ai nostri giorni, stiamo entrando rapidamente nel mondo della moltiplicazione degli oggetti: consumismo, globalizzazione, scienza modificano i costumi, le abitudini, gli stili di vita. Oramai siamo nel trionfo degli oggetti stessi. Una vasta gamma di droghe, farmaci, sostanze sono a disposizione; entrano prepotentemente anche altre forme di dipendenze, dei nuovi oggetti della tecnologia e non solo. Seguendo Lacan possiamo osservare che il Simbolico è oggi sempre più inconsistente: il rapporto che il soggetto intrattiene col soddisfacimento diviene complesso: gli eccessi, prima regolati dall’Ideale in rapporto al soggetto, ora sono senza limite, nel rapporto fra super-io e dipendenza dal godimento. L’eccesso di godimento è in presa diretta attraverso “una scrittura selvaggia, fuori sistema” con l’esperienza, in rapporto ai consumi, alla scienza, alle religioni, ai costumi… crea vortici di effimere estasi, di eden debili, virtuali, pornografie esibite, deposti e squarciati oramai i veli. La dipendenza (addiction) è un attributo dell’esperienza esplosiva e fagocitante che agisce, passa all’atto, giunge al cuore del linguaggio, quindi della parola e la silenzia, non la fa sorgere. È una dipendenza che si impone al limite che non si fa, all’insopportabile dell’esistenza. La terapia, paradossalmente, in questo tempo della civiltà deve introdurre e sostenere, una nuova, smarrita dipendenza: la dipendenza dalla parola, purché si sia ben orientati dalla precedente dipendenza del soggetto, che agiva un singolare proprio eccesso rispetto ad un reale troppo devastante. Classificazione
Di seguito vengono presentate le più significative innovazioni introdotte nel DSM-5 per quanto riguarda le modifiche intercorse nell’ambito della nosografia dei disturbi sessuali. A differenza della precedente edizione, i disturbi sessuali non sono più conglobati in una stessa categoria ma in tre categorie distinte: le Disforie di Genere, le Parafilie, le Disfunzioni Sessuali. Nel DSM-IV, invece, le disfunzioni sessuali riguardavano il dolore sessuale o un disturbo in una o più fasi del ciclo di risposta sessuale. La ricerca suggerisce che la risposta sessuale non sia sempre un processo uniforme lineare e che la distinzione tra alcune fasi (ad esempio, il desiderio e l’eccitazione) possa essere artificiale. Nel DSM-5, sono state aggiunte disfunzioni sessuali specifiche per genere, e, per le femmine, il Disturbo da Desiderio Sessuale e il Disturbo di Eccitazione Sessuale sono stati combinati in un unico disturbo: Disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile. Ecco i criteri: A mancanza, o significativa riduzione, di desiderio/eccitazione sessuale, come manifestato da almeno 3 dei seguenti problemi: • Assente o ridotto interesse per l’attività sessuale; • Assenti o ridotti pensieri o fantasie sessuali/erotiche; • Nessuna iniziativa di attività sessuale e nessuna risposta ai tentativi da parte del partner; • Assente o ridotto piacere ed eccitazione sessuale durante l’attività sessuale; • Il desiderio non è scatenato da alcuno stimolo sessuale; • Assenti o ridotti cambiamenti genitali e/o non-genitali durante l’attività sessuale. B. I sintomi sono protratti come minimo per circa 6 mesi C. Il problema causa disagio clinicamente significativo o impedimenti; D. La disfunzione sessuale non è meglio giustificata da un altro disturbo di asse I e non è dovuto esclusivamente agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione medica generale. Anche il vaginismo e la dispareunia, che erano spesso coesistenti e difficili da distinguere, sono stati conglobati nel disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione. La proposta di riunirli in un unico disturbo è stata dettata dalla reale difficoltà di differenziare questi due disturbi nella pratica clinica. Di seguito i criteri: A. Persistente e ricorrente difficoltà in almeno uno dei seguenti problemi: • Incapacità di avere una penetrazione vaginale; • Marcato dolore pelvico e vaginale durante il rapporto o i tentativi di penetrazione vaginale; • Marcata paura e ansia per la penetrazione vaginale o per il dolore pelvico e vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale; • Marcata tensione e indurimento dei muscoli pelvici durante i tentativi di penetrazione vaginale. B. I sintomi sono protratti come minimo per circa 6 mesi C. Il problema causa disagio clinicamente significativo o impedimenti; D. La disfunzione sessuale non è meglio spiegata da un altro disturbo di asse I e non dovuto esclusivamente agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a condizione medica generale. Per il genere maschile, l’eiaculazione ritardata e l’eiaculazione precoce, che nel DSM-IV erano inclusi nei disturbi dell’orgasmo, nel DSM-5 sono classificate in categorie diagnostiche a parte. Nel DSM-5 vengono invece mantenuti il disturbo erettile, il disturbo dell’orgasmo femminile, il disturbo del desiderio sessuale ipoattivo maschile. Il disturbo da avversione sessuale è stato abolito dalle categorie principali e relegato in “altre disfunzioni sessuali specifiche” a causa dell’uso raro della diagnosi e della mancanza di sostegno dai dati di ricerca. Studi clinici hanno evidenziato che gli individui a cui viene attribuita tale diagnosi incontrano perfettamente i criteri per il Disturbo da desiderio sessuale o il Disturbo da desiderio sessuale ipoattivo. Per quegli individui che manifestano aperta avversione agli stimoli e alle situazioni sessuali è maggiormente indicata la diagnosi di Fobia Specifica. Per aumentare la precisione e ridurre sovrastime, le disfunzioni devono avere una durata minima di sei mesi, ad eccezione di quelle secondarie all’uso di sostanze psicoattive. Queste modifiche prevedono soglie utili per fare una diagnosi e distinguono transitorie difficoltà sessuali da disfunzioni più persistenti. Per identificare l’esordio della difficoltà vengono utilizzati alcuni sottotipi: permanente/acquisito e generalizzato/situazionale: • “permanente” se un problema sessuale è presente dalle prime esperienze sessuali • “acquisita” se i disturbi sessuali si sviluppano dopo un periodo di prestazione sessuale normale • “generalizzata” se le difficoltà sessuali non sono limitate a determinati tipi di stimolazione, situazione o partner • “situazionale” se le difficoltà sessuali si verificano solo con alcuni tipi di stimolazione, situazione o partner E’ stata abolita la distinzione tra disfunzioni legate a fattori biologici o a fattori psichici, convenendo che spesso entrambi questi aspetti ne prendano parte. Vengono inoltre presi in esame fattori inerenti il partner, la relazione, la vulnerabilità individuale, i fattori religiosi e culturali ed i fattori medici. Ancora una volta, però, la raccomandazione è quella di considerare i sintomi sessuali come disturbi psichici solo dopo aver escluso ogni componente organica. Aspetti psicodinamici Il senso di inadeguatezza si traduce in molti modi, ed è sempre il timore di non piacere, o di non essere all'altezza della prestazione. Questo genera ansie che si manifestano poi con calo o assenza di desiderio sessuale, in disturbo dell'eccitazione nella donna e in impotenza nell'uomo, o in anorgasmia, eiaculazione ritardata o anticipata. Naturalmente un buon dialogo con il partner è fondamentale, ma non tutti coloro che presentano questo tipo di disturbi hanno un partner o un partner fisso. Inoltre se il partner può rassicurare, non può però entrare nelle dinamiche profonde che turbano il circuito del desiderio. La sessualità è una componente fondamentale della vita affettiva, e ridurla a disfunzione meccanica non aiuta. Il problema va visto piuttosto nella sua complessità emotiva e mentale. La sessualità è una risposta all'Altro, e quindi le sue inibizioni, le sue difficoltà, i suoi punti di blocco derivano dalle matrici fondamentali che hanno reso contraddittorio il desiderio. Si vorrebbe, per esempio, sul piano conscio, una relazione sessuale, mentre sul piano inconscio una tendenza opposta vi si oppone con forza, anche se inavvertita, e l'effetto è di impotenza o di difficoltà di eccitamento. .Il termine parafilia è stato introdotto dall’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ed è stato coniato e adottato da psichiatri, psicologi e sessuologi, in sostituzione della vecchia dicitura di perversione sessuale.
La nozione di perversione risulta essere da sempre come tra le più complesse e dibattute questioni dell’intera psicopatologia, soprattutto in quanto risulta assai problematico svincolarsi completamente dall’assunzione di una presunta norma sessuale, culturalmente e socialmente condizionata e rapidamente variabile. Ad esempio, è sufficiente ricordare tutte le vicissitudini attraversate dall’omosessualità come categoria nosografica, sia descrittiva che eziologica, considerata da sempre come manifestazione di un comportamento sessuale deviante, e riabilitata dai manuali diagnostici come espressione di una sessualità normale solo in tempi estremamente recenti. Il termine di perversione si colloca in una continua e costante enigmaticità tra deviazione e sovversione della norma, tra incapacità di conformarsi e intenzionalità di volerne spostare i limiti consensualmente ammessi, tra malattia e fenomeno sociale e di costume innovatore, e per finire tra condotte disgiunte o contigue alla normalità affettiva ed erotica. La psicoanalisi ha prodotto la maggior parte delle riflessioni che riguardano la discussione scientifica sui comportamenti sessuali perversi, trasformandone lo statuto da vizio, devianza, indice di degenerazione o di costituzione morbosa, in una visione che valorizza in ogni comportamento perverso la componente fantasmatica e il significato di difesa, modificando così i propri assunti da una rappresentazione delle manovre perverse come difese dai derivati istintuali ad una che le riferisce al rapporto con l’oggetto del desiderio. DSM Nel DSM V (American Psychiatric Association) le parafilie sono definite come “fantasie, impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti sessualmente che in generale riguardano: 1) oggetti inanimati; 2) la sofferenza o l’umiliazione di se stessi o del partner, o 3) bambini o altre persone non consenzienti. Il comportamento, impulso o fantasia sessuale causa un disagio clinicamente significativo nell’area sociale, professionale o in altre importanti aree di funzionamento del soggetto”. Il termine perversione nel principale manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, nel tentativo di non essere giudicante, viene sostituito con quello di parafilie e suggerisce una definizione attuando la restrizione del termine alle situazioni sopracitate. Per considerare un continuum tra fantasia e azione, il DSM V ha elaborato uno spettro di gravità. Nelle forme tenui, la persona è turbata dalle proprie spinte sessuali non ordinarie, ma non le mette in atto. Nelle condizioni di gravità più moderata, la persona traduce la spinta in azione, ma solo occasionalmente. Nelle situazioni più gravi, la persona mette ripetutamente in atto la propria spinta parafiliaca. Il nuovo termine mette l’accento sul fatto che la deviazione (para) dipende dall’oggetto fonte di attrazione (filia). Chi la manifesta non è sostenuto da un desiderio sufficiente e non ha la capacità di investire in una direzione oggettuale definita. Altri hanno sostenuto che la modificazione del termine ufficiale da perversioni a parafilie è un tentativo fuorviante per “sanare” le perversioni Perversioni: letture psicodinamiche Nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) le perversioni vengono viste da Freud come attività sessuali che vanno oltre le zone del corpo deputate all’unione sessuale, oppure che si limitano alle sole attività preliminari, forme di gratificazione che dovrebbero, al contrario, essere secondarie in un comportamento sessuale normale. Nevrosi e perversione hanno per Freud a che fare con il complesso edipico e stanno in relazione di reciprocità: la nevrosi è una formazione sintomatica di compromesso tesa ad inibire un impulso, la perversione invece è una fuga dalla nevrosi, una fuga dal complesso edipico e dall’angoscia di una punizione ad esso connessa, ed è tesa invece a consentire all’impulso il suo soddisfacimento caratterizzata dal meccanismo di difesa del Diniego o Verlungung. L’evoluzione della definizione di attività sessuale perversa mostra quanto la nosologia psichiatrica rifletta la società che la esprime. Nel contesto di una cultura sessuofobica, quale era l’età vittoriana, che considerava la normalità sessuale in termini piuttosto ristretti, Freud (1905) definì l’attività sessuale come perversa secondo diversi criteri: 1) essa è focalizzata su regioni del corpo non genitali; 2) anziché coesistere con l’abituale pratica di rapporti genitali con un partner dell’altro sesso, soppianta e sostituisce tale pratica; 3) tende ad essere la pratica sessuale esclusiva dell’individuo Dal primo scritto di Freud, gli atteggiamenti culturali relativi alla sessualità sono radicalmente cambiati. Dalla ricerca scientifica è emerso che le coppie solitamente hanno una varietà di comportamenti sessuali. I rapporti oro-genitali, ad esempio, sono ampiamente accettati, così come la penetrazione anale e l’omosessualità sono state rimosse definitivamente dalla lista delle attività perverse. Gli autori psicoanalisti hanno ripetutamente confermato l’osservazione di Freud, secondo cui in ciascuno di noi vi è un latente nucleo perverso. Molti clinici hanno messo in evidenza come fantasie perverse si riscontrano regolarmente in tutto il comportamento sessuale adulto, ma tendono a generare pochi problemi in quanto non vengono vissute come compulsive. E’ stato proposto di utilizzare il termine di neosessualità, per riflettere la natura innovativa della pratica e l’intenso investimento e coinvolgimento dell’individuo nel suo conseguimento. Stoller ha fatto appello a una definizione ristretta di attività sessuale. Riferendosi alla perversione come a una “forma erotica dell’odio”. Egli ha affermato che la crudeltà e il desiderio di umiliare e di degradare il partner sessuale, e anche se stessi, è la determinante cruciale per classificare un comportamento come perverso. Da questo punto di vista l’intenzione della persona è una variabile importante per definire la perversione. Successivamente, riconoscendo come nel normale eccitamento sessuale vi sia una nota di ostilità e di desiderio di umiliare l’Altro, ha sostenuto che l’intimità sia l’autentico fattore critico di differenziazione. Ne risulta così che un individuo è perverso solo quando l’atto erotico viene utilizzato per evitare una relazione a lungo termine, emotivamente intima, con un’altra persona. Il comportamento sessuale, invece, non è perverso, quando è a servizio della costituzione di una relazione intima e stabile. Rispetto all’eziologia, le parafilie restano tutt’oggi intrise di mistero. Nonostante certe ricerche abbiano messo in evidenza come i fattori biologici possano contribuire alla patogenesi delle parafilie, i dati sono assai discutibili e controversi. Pertanto, viene attribuita un’importanza primaria alle ragioni psicologiche che giocano un ruolo cruciale nel definire la scelta della perversione e il significato sottostante agli atti sessuali La visione classica delle perversioni attinge profondamente nella teoria pulsionale freudiana. Freud (1905) riteneva che questi disturbi illustrassero come l’istinto e l’oggetto, l’atto e la meta, siano separati l’uno dall’altro. In più, egli definì la perversione contrapponendola alla nevrosi. I sintomi nevrotici, infatti, secondo Freud rappresentano una trasformazione di fantasie perverse rimosse. Nelle perversioni tali fantasie diventano coscienti e vengono espresse direttamente come piacevoli attività egosintoniche. Pertanto, Freud descrisse le nevrosi come la negativa delle perversioni e i sintomi nevrotici li ricondusse a fantasie perverse desessualizzate dalle difese psichiche e fuori escluse dal campo della coscienza. Nella visione tradizionale, le perversioni possono essere fissazioni o regressioni a forme di sessualità infantile che persistono nella vita adulta (Fenichel; Sachs), e un atto perverso diviene una procedura fissa e ritualizzata, sola strada per il raggiungimento dell’orgasmo genitale. In questa concezione teorica del funzionamento psichico, il fattore decisivo che impedisce il raggiungimento dell’orgasmo attraverso il rapporto genitale convenzionale, è l’angoscia di castrazione legata alla conflittualità edipica. Le perversioni assolvono la funzione di negare la castrazione vissuta come punizione per il desiderio edipico, dando ragione del motivo per il quale la maggior parte dei “pazienti” affetti da parafilie sono maschi. Nel suo lavoro clinico Freud notò la complessità delle perversioni e osservò come qualunque perversione “attiva” fosse sempre accompagnata da una controparte “passiva”. Secondo questa formulazione, il sadico avrebbe un nucleo masochista, mentre il voyeur soffrirebbe di inconsci desideri esibizionistici. Molti ricercatori psicoanalitici in tempi più recenti hanno concluso che la sola teoria pulsionale è insufficiente a spiegare molte delle fantasie e dei comportamenti perversi e che per una lettura comprensiva gli aspetti relazionali siano fondamentali. Secondo Stoller, l’essenza della perversione è la conversione di un trauma infantile in un trionfo adulto. La persona è spinta dalla propria fantasia di vendicare umilianti traumi infantili causati dai propri genitori. Il metodo di vendetta di questi “pazienti” è quello di disumanizzare e umiliare il loro partner durante la fantasia o l’atto perverso. L’attività sessuale perversa può anche essere una fuga dalla relazione e dall’intimità. In questo caso, molte persone che esprimono una qualche parafilie si sentono separate e individuate in mondo incompleto dalle loro rappresentazioni intrapsichiche della madre. La conseguenza è che avvertono che la loro identità come persone autonome e separate, viene continuamente minacciata da una fusione o da un inglobamento con l’Altro sia interno che esterno. L’espressione sessuale può, dunque, diventare l’unica area nella quale riescono ad affermare la loro indipendenza (Mitchell; Gabbard). La perversione, quindi, può essere vista sia come espressione del desiderio di umiliare (Stoller) che come una sfida alla prepotente influenza della figura materna interna. Secondo Kohut, l’attività perversa comprende un tentativo disperato di ristabilire l’integrità e la coesione della propria identità in assenza di risposte empatiche da parte degli altri. L’attività o la fantasia sessuale può aiutare, secondo questo Autore, a sentirsi vivi e integri quando si è minacciati dall’abbandono o dalla separazione. Anche la McDougall, sebbene faccia riferimento ad un approccio psicoanalitico differente rispetto a quello di Kohut, ha notato come il nucleo centrale di molte attività perverse sia la paura di perdita dell’identità o del senso di Sé, suggerendo inoltre che il comportamento sessuale evolve da una complicata matrice di identificazioni e controidentificazioni con i genitori. Il giudizio clinico tradizionale ha sostenuto che le perversioni sono rare nelle donne. Questo punto di vista è mutato negli ultimi anni, come risultato della ricerca e dell’osservazione clinica che hanno messo in evidenza come le fantasie perverse siano di fatto comuni nelle donne. E’ stato rilevato che clinici non siano stati in grado di identificare le perversioni nelle donne poiché implicano delle dinamiche più sottili e complesse rispetto alla sessualità più prevedibile della controparte maschile. Delle attività sessuali che derivano dalle parafilie femminili fanno parte le tematiche della separazione, dell’abbandono e della perdita. Ad esempio, alcune donne che hanno subito da bambine delle violenze sessuali, adottano un modello di sessualità femminile esasperato nel tentativo di vendicarsi sugli uomini e di rassicurarsi sulla propria femminilità. Infine, la clinica tradizionale ha notato spesso come un ampio spettro di diagnosi psichiatriche e livelli di organizzazione di personalità possa essere presente in chi manifesti una sessualità non ordinaria. Perversioni sono state osservate, ad esempio, in pazienti psicotici, in quelli con disturbi di personalità così come in pazienti relativamente sani o nevrotici. La comprensione psicodinamica di un paziente coinvolto in un’attività perversa implica sempre una comprensione esauriente del modo in cui la perversione interagisce con la sottostante struttura caratteriale della persona. Pazienti nevrotici, ad esempio, possono utilizzare un’attività parafiliaca per facilitare la potenza genitale, mentre pazienti vicini al versante psicotico possono usare la medesima attività per difendersi da un senso di dissoluzione identitario. La logica perversa in Lacan Nella perversione esiste una logica che regola il rapporto del soggetto rispetto al godimento. Condizione indispensabile è che l’intersoggettività e qualsiasi significato relazionale siano annullati. La puntualizzazione di Lacan a proposito del tema della perversione, nella Questione preliminare è molto chiara: “Tutto il problema delle perversioni consiste nel concepire come il bambino, nella sua relazione con la madre (…) si identifichi all’oggetto immaginario di questo desiderio in quanto la madre stessa lo simbolizza nel fallo”. Si manifesta una predominanza della posizione materna nella perversione come nel caso del feticista, che si identifica immaginariamente con il fallo che manca alla madre e che non trova nel padre un impedimento a questa identificazione. Il padre mantiene un silenzio complice sul rapporto libidico che intercorre fra la madre ed il suo fallo-bambino. Il soggetto perverso è legato a quest’idea assoluta di godimento in cui la madre vuole per il proprio godimento l’annullamento del soggetto. Al soggetto non rimane che porsi come oggetto del godimento dell’Altro. La logica perversa è caratterizzata dall’idealizzazione della pulsione che permette al soggetto una riconciliazione con se stesso. Il soggetto non è più diviso, non ha più bisogno di relazionarsi all’altro, di trovare le modalità del suo assenso rapportandosi alla sua mancanza per agganciare il desiderio. La pulsione idealizzata distrugge il soggetto come luogo di desiderio. La perversione risulta così caratterizzata dalla eliminazione del soggetto e della relazione, condizioni indispensabili per rendere possibile il rapporto riuscito con il godimento. Il desiderio infatti rappresenta per il nevrotico una difesa dal godimento, per non raggiungere il godimento dell’Altro. Il sintomo e il fantasma sono i due mezzi che il nevrotico usa per opporsi al godimento fuori misura e per reprimerlo. Il perverso si pone nel luogo di a, di questo resto, e mira al godimento dell’Altro. Il perverso ha strutturato un rapporto molto particolare con il proprio fantasma, lo esibisce e lo usa come provocazione, vorrebbe arrivare a un “dire tutto senza che ci sia un resto”. Vorrebbe creare un soggetto in grado di trarre sempre piacere dal godimento eliminando la sofferenza. Nel fantasma sostanzialmente si nasconde quel desiderio che prevede l’annullamento della soggettività dell’Altro. Nella perversione si verifica il primato del fantasma sul sintomo che viene messo costantemente in scena. Lacan in Kant con Sade chiarisce il primato del fantasma sul sintomo, definendo il modo in cui il soggetto perverso si fa strumento del godimento dell’Altro e introduce inoltre il concetto di “volontà di godimento” di fronte ai limiti imposti dal desiderio. Freud aveva operato un rovesciamento rispetto alla tematica della perversione. Per lui non si trattava più di parlare di perversioni sessuali ma di sessualità perversa. La sessualità per Freud era un sintomo della civiltà che andava indagato. Nel corso della sua elaborazione teorica il tema della perversione è stato da lui considerato più volte, tanto che a un certo punto è risultato molto difficile riuscire a separare il meccanismo di funzionamento della perversione dalle altre strutture cliniche. Per Freud, infatti, le perversioni sono compatibili con le nevrosi, le psicosi e la perversione stessa. Alla relazione madre-bambino è stata attribuita grande importanza nella clinica della perversione sia nella teoria di Freud che di Lacan. Questo ha fatto sì che la clinica del padre sia stata ridimensionata e il padre sia diventato un sintomo. Lacan parla a questo proposito di sinthomo per indicare il fatto che esiste un reale che è refrattario al simbolico, un reale che si ripete determinando sofferenza nel corpo e nella mente del soggetto : “il godimento”. Attraverso l’esperienza clinica è possibile stabilire il rapporto che ogni soggetto intrattiene con il reale. Il sintomo perverso si presenta come un metodo di soddisfazione della pulsione libidica caratterizzato da una certa artificiosità per accedere al reale della soddisfazione e quindi al godimento. L’artificiosità appartiene alla stessa messa in scena del sintomo perverso che nel suo manifestarsi non può fare a meno di includere l’altro inteso come partner della relazione. |
Archivi
Novembre 2024
categorie
|